Il medico bergamasco Guglielmo Grataroli esule per fede nel Cinquecento

Incontro con
Giulio Orazio Bravi
http://www.giuliooraziobravi.it

 

La famiglia Grataroli è originaria di Oneta, frazione di San Giovanni Bianco, proprietaria dell’edificio quattrocentesco oggi conosciuto come “Casa di Arlecchino”.

Il casato fu tra i più nobili della valle.

Alcuni suoi membri si trasferirono a Bergamo e Venezia.

I Grataroli si divisero poi nei rami dei Grataroli-Benzoni e dei Grataroli-Saraceni.

Alla prima linea appartennero i fratelli Giovanni e Guglielmo, vissuti nel XVI secolo.

 

 

Guglielmo (1516-1568), eretico seguace di Calvino, studioso di medicina, sarà condannato in contumacia per le sue idee religiose.

Secondo alcuni il cognome avrebbe alla base il sostantivo “grattugia“, il cui disegno è presente nello stemma che potete vedere qui di seguito.

 

 

Stemmi della famiglia Grataroli:
un curioso leopardo eretto con il numero 1054 (immagine sopra) e la grattugia con il numero 1055 (immagine sotto).

È curioso il fatto che, dopo aver trattato del “gattopardo rampante” simbolo del Consiglio di Valle la scorsa riunione, si trovi qui un altro felino rampante anche se certamente non dall’aspetto bellicoso.

 

 

Alla cena conviviale del 25 gennaio 2018 abbiamo avuto il piacere e l’onore di avere come ospite relatore il dott. Giulio Orazio Bravi, paleografo, archivista, storico, già direttore della Biblioteca Civica Angelo Mai dal 1995 al 2010, fondatore del Centro Studi Archivio Bergamasco nel 1979 e del Centro Culturale Protestante di Bergamo nel 1990, uno dei massimi studiosi del tema della Riforma Protestante.

Il dott. Bravi ha infatti tenuto numerosi convegni sia in Italia che all’estero e in particolare nel corso del 2017 in occasione delle numerose celebrazioni che si sono tenute in tutto il mondo per il Cinquecentenario della Riforma.

 

 

Il suo lavoro di studio e ricerca è ampio e incessante, la sua grande passione per le discipline umanistiche traspare anche da una sua citazione tratta dal suo sito:

‘’Credo nello sforzo comune della ricerca e nel valore pubblico del sapere come mezzo di benessere individuale e di libertà.

Cerco lettori che dai saggi qui pubblicati possano ricavare qualche giovamento.

Coltivo erudizione e memoria. La nostra coscienza, dalla quale scaturisce ogni nostro giudizio di valore, si forma e s’irrobustisce nella memoria del passato e di noi stessi.

Senza memoria non c’è coscienza, e senza coscienza vaghiamo incerti, smarriti, sconosciuti a noi stessi, in balia di venti capricciosi’’.

 

Il tema della serata ha avuto per titolo ‘’Il medico Bergamasco Guglielmo Grataroli esule per fede nel Cinquecento’’ e, riagganciandosi ai temi della Riforma Protestante, ha tracciato un profilo di questo personaggio riportando consigli di viaggio tratti dalla guida per viaggiatori ’’De regimine iter agentium’’ pubblicata dal Grataroli nel 1560. Si tratta della prima guida organica e completa, ricca di raccomandazioni e di tante buone pratiche per affrontare un viaggio ed è inoltre accompagnata dalla descrizione di quaranta itinerari lungo le principali città europee.

In questo periodo Grataroli si trovava in esilio a Basilea, dopo la condanna a morte, per aver criticato la concezione corrente delle indulgenze papali da lui ritenute contrarie ad un vero spirito evangelico.

 

 

Guglielmo Grataroli nacque a Bergamo il 16 maggio 1516 da Pellegrino, di una famiglia originaria di San Giovanni Bianco in Val Brembana e trasferitasi a Bergamo nel corso del XV secolo con Antonio, padre di Pellegrino, che acquistò in città abitazione e terreni.

Pellegrino, ascritto fra i cittadini di Bergamo il 12 novembre 1507, conseguì il titolo dottorale in medicina; morì nel 1528.

Il Grataroli ricevette i primi rudimenti nella città natale da Giovita Ravizza che fu maestro comunale a Bergamo; nel 1531 iniziò gli studi all’Università di Padova, dove rimase per sei anni attendendo ai corsi di arti e medicina.

Il 10 maggio 1539 conseguì a Venezia la laurea presso il Collegio dei fisici della città e il 16 giugno fu aggregato, dopo aver tenuto una lezione dottorale, al Collegio dei medici fisici di Bergamo.

La sua attività sanitaria fu peraltro interrotta da frequenti viaggi, nel corso dei quali raccolse manoscritti di alchimia e di scienze naturali.

Accusato di avere sostenuto proposizioni contro l’ortodossia della fede, il 4 febbraio 1544 pronunciò l’abiura di fronte all’inquisitore di Milano, ma continuò a perseverare nelle proprie opinioni, anche dopo il rientro nella città natale.

Sul finire del 1548 il doge di Venezia, informato che a Bergamo erano attivi nuclei di eterodossi che cercavano di fare opera di propaganda, diede disposizione ai rettori della città di agire, d’intesa con il potere ecclesiastico, per circoscrivere il focolaio ereticale.

Contro il Grataroli, già tenuto sotto stretta osservazione, nel 1550 fu quindi messo in moto un nuovo procedimento poiché egli aveva “molto straparlato dele cose pertinenti a la fede et di essa fede et de la potestà del papa”.

Convocato per discolparsi, il Grataroli aveva sollevato obiezioni sulla correttezza formale della costituzione del fascicolo processuale, e poi richiesto ripetute deroghe ai termini di presentazione. I suoi procuratori, dopo la scadenza della data del rinvio, avevano presentato una lettera autografa datata Tirano, in Valtellina, 27 novembre 1550, con la quale egli dava atto di avere ricevuto notizia e copia della convocazione, ma al tempo stesso affermava di non volersi presentare, perché non riconosceva il potere della Chiesa romana né quello del pontefice; anzi egli dichiarava di appellarsi al futuro concilio generale e al tribunale di Cristo, e concludeva con un appello esplicito alla tolleranza confessionale e alla non punibilità di chi si faceva interprete di dottrine eterodosse (“haeretici non sint comburendi nec puniendi sed ab Ecclesia tolerandi“.).

Anziché sottomettersi, non rinunciava alle proprie convinzioni e attaccava apertamente l’autorità ecclesiastica.

La reazione non poté non essere di estrema durezza, come dimostrano le misure adottate nei suoi confronti e i termini con cui venne dipinto: “heretico pertinace et relapso et schandaloso et infame“, insomma una vera “peste contra la fede“.

D’altro canto, le obiezioni mosse e le deroghe sollecitate avevano creato uno stato di viva preoccupazione nell’inquisitore cittadino, il domenicano Domenico da Bergamo, che ne aveva scritto il 27 gennaio 1551 al nunzio apostolico a Venezia, Ludovico Beccadelli, invitandolo a intervenire con vigore e tempestività presso il Consiglio dei dieci e il Senato per rintuzzare e neutralizzare le possibili manovre degli agenti del Grataroli: si trattava infatti di un caso di indubbia gravità, proseguiva l’inquisitore, seguito dal papa e dai cardinali del S. Uffizio che avevano a cuore la sorte di Bergamo.

La sentenza, pronunciata dal vescovo Vittore Soranzo e dall’inquisitore fra Domenico, qualificava il Grataroli come “relapso“, intimava la confisca del patrimonio e lo dava in consegna al braccio secolare, attuando una procedura che non poteva che condurre alla condanna capitale.

La ratifica della sentenza da parte veneziana indicava esplicitamente come pena la decapitazione e il rogo del corpo, e riportava il premio di una cospicua taglia a chi procurasse la consegna del ricercato.

Il confronto fra le testimonianze consente di datare con una certa precisione la sua fuga che, ancora presente a Bergamo durante il carnevale 1550, a metà settembre era considerato ormai “fugito de la presente cità per esser lutherano” (Città del Vaticano, Arch. della Congregazione per la Dottrina della fede).

Nella sua Confessione di fede, stampata nel 1552 a Basilea sotto forma di foglio volante, il Grataroli faceva risalire la sua conversione a sei anni prima, dunque appunto al 1546, cioè a un periodo intermedio tra l’abiura milanese del 1544 e le nuove accuse che l’inquisitore e il vescovo di Bergamo formularono contro di lui nel 1550.

Nel maggio 1550 transitò per la Valcamonica, nel novembre si trovava a Tirano, in quella Valtellina soggetta al potere delle Leghe grigie “l’asilo di tutti i più arditi genj amanti di pensare e di parlare con libertà“.

Agli inizi del 1552 era a Basilea, segnalato dal concittadino Girolamo Zanchi a Giovanni Calvino del suo soggiorno in città. Basilea rappresentò per lui una seconda patria, così come per altri esuli provenienti dalla penisola, i quali scorgevano nella città svizzera un’immagine di cultura, di libertà e di zelo cristiano che si contrapponeva al clima di persecuzione in atto contro le deboli comunità riformate italiane. Si immatricolò in seguito presso l’Università di Basilea, dove nel 1558 fu accolto nel consiglio della facoltà di medicina, della quale fu anche nominato decano nel 1566.

Tra il 1557 e il 1561 non mancano le testimonianze di un rapporto epistolare con Théodore de Bèze, nel quale le informazioni sul consolidamento delle chiese ugonotte di Francia si alternano con lo scambio di testi classici e di novità librarie.

Nel 1561 spediva, fresco di stampa, il suo “De regimine omnium iter agentium” a Bèze, invitandolo però a non mostrarlo a Calvino, in quanto nella prefazione aveva fatto ricorso a citazioni tratte dagli scritti del riformatore di Ginevra senza farne esplicitamente il nome.

A differenza di tanti eretici italiani emigrati nelle terre svizzere, Grataroli rimase fedele nel tempo all’ortodossia riformata, tanto da spingersi talora a denunciare quanti potevano avere facilitato la circolazione di scritti di dissenzienti, accentuando la sua posizione filoginevrina e isolandosi dalle tendenze culturali e religiose prevalenti a Basilea.

Nonostante la fama che si era guadagnata per l’impegno e la competenza nella professione medica, sulla fine del 1567 si scontrò con il Senato dell’Università cittadina, che aveva anche discusso la proposta di depennarlo dai ruoli per la sua difesa intransigente delle tesi calviniste e per le polemiche mai sopite sul conto di Castellione.

I rapporti con Calvino dovevano essere abbastanza stretti ancora nel 1559, quando gli prescrisse una terapia per le emorroidi. La sua attività sanitaria al servizio della città di Basilea e i suoi consigli medici elargiti ai maggiori esponenti della Riforma dovevano del resto essere consueti e apprezzati.

Del resto, anche tra le composizioni poetiche dedicate all’esule Giovanni Bernardino Bonifacio marchese d’Oria risalenti al 1558 (e conservate manoscritte presso l’Universitätsbibliothek di Basilea) si leggono alcuni rimedi contro l’intolleranza al consumo del vino.

Allo stesso Amerbach trasmise nel 1556 l’indicazione della ricetta di un collirio ricavato dal “De rerum varietate” di Girolamo Cardano, un testo che aveva rivisto ai fini della stampa basileese per l’officina di H. Petri del 1557; peraltro aveva conosciuto di persona il Cardano quando questi era transitato da Basilea sullo scorcio del 1552 e, avvertito dal Grataroli, era riuscito a evitare una locanda contagiata dalla peste.

Il Cardano ricordò in seguito Grataroli oltre a Konrad Gessner e a Lycostenes, nel suo “De libris propriis“.

Guglielmo Grataroli morì a Basilea di tifo petecchiale il 16 aprile 1568.

Prima del 1549 aveva sposato la concittadina Barbara Nicolai, che, per seguirlo nella fuga Oltralpe, aveva dovuto rinunciare alla dote di 800 coronati (1).

 

(1) Moneta d’argento emessa nel 1458 da Ferdinando I d’Aragona re di Napoli e di Sicilia a ricordo della sua incoronazione; fu anche nome di monete d’oro o d’argento emesse in epoca anteriore in alcuni paesi francesi.
(Testo tratto dal sito Treccani, Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 58)

 

Dal matrimonio non nacquero figli.

La vedova curò la posa di una lapide funeraria nella quale era ricordata l’appartenenza del defunto al Collegio dei medici di Basilea e la motivazione della sua fuga dall’Italia (“ob religionem exul“); Barbara morì l’anno successivo.

 

Il nostro ospite ha mantenuta alta l’attenzione di tutti i presenti soffermandosi su curiosità e consigli di viaggio tratti dalla guida del viaggiatore e ha concluso leggendo una citazione di Grataroli:

“Finché viviamo, dobbiamo continuare ad apprendere. Non accadrà mai che sapremo troppo, ma che non sapremo mai abbastanza.

Nulla può darci più gioia del conoscere chi siamo, chi eravamo, chi saremo; e a nessun altro piacere potremo comparare quello che proviamo mentre apprendiamo leggendo o contemplando.

È poi nella natura dell’uomo comunicare agli altri, a voce o con la scrittura, le cose apprese e concepite con la mente.

L’uomo sapiente e giusto non tiene nascosto quanto ha scoperto e conosciuto se può essere di vantaggio per tutti.

Tanta saggezza e sapienza dovrebbe fare parte ogni giorno della nostra vita, curiosità e conoscenza come un faro che illumina nell’oscurità.”

 

 

Al ricordo della serata la Presidente incoming Maddalena Trussardi ha ringraziato il nostro ospite per l’interessantissima relazione e gli ha consegnato il gagliardetto del club.

 

 

 

Videoteca

Video della serata (63′)
Riprese di “Grafica Fantoni” Clusone